L’algoritmo che controlla i contenuti di Facebook è uno strumento importante, ma spesso ne combina di grosse. Ha eliminato ora qualsiasi rimando ad articoli – recenti e anche risalenti ad anni fa - del sito web www.ildelitto.it per “violazione delle regole” immaginando che istighi alla violenza sol perché vi intercetta la parola “delitto”: un abbaglio clamoroso, poiché le materie della rivista on line sono cronaca, prevenzione e repressione del crimine.
Può essere spiacevole il fatto che il direttore della rivista online “Il delitto” sono proprio io; che da giornalista professionista ultradecano, in ben cinquantadue anni di lavoro in prima linea, sono scampato alla mafia e alla malavita che più volte ha tentato di tapparmi la bocca ammazzandomi. Un cronista di razza non ha bisogno di millantare chissà che: vantando un curriculum di redattore di importanti testate, consulente della Commissione parlamentare antimafia, autore di inchieste durissime e di libri premiati, me ne impiperei della censura da parte di chi fa miliardi incurante del diritto alla pluralità dell’informazione.
L’obbrobrio è che la scandalosa censura, ovviamente frutto dell’abbaglio di una formula, tappa la bocca in modo risolutivo e antidemocratico: senza offrire alcuna spiegazione e senza permettere di replicare per ottenere la revisione del problema, se non con un modulino nel quale inserire venti parole che, come Facebook avverte, nessuno si piccherà poi di leggere.
Affidare a una formula il compito di decidere sulla bontà di contenuti è vantaggioso ai fini della tempestività e per l’enorme risparmio di lavoro nella individuazione di contenuti tossici; ma a farne le spese non possono essere anche utenti corretti della piattaforma social. I casi di abbagli dell’algoritmo di Facebook sono innumerevoli e deprecabili, soprattutto quando, come nel caso della mia rivista “Il delitto”, colpiscono siti web indipendenti: il social, infatti, anziché analizzare i contenuti propri degli iscritti impedisce loro di condividere quelli di terzi, limitandone la diffusione.
Questi modi bischeri, pur discriminando, non nascondono forse l’intento di condizionare l’opinione pubblica; ma confermano che l’intelligenza artificiale, senza il controllo umano, può anche commettere delitti: all’offesa, alla denigrazione e al discredito si aggiunge infatti l’illecito, giuridicamente apprezzabile, di impedimento della diffusione di stampa in regola con le leggi dello Stato italiano e di ogni altra nazione. A Facebook si diano una smossa, rimediando senza indugio.