La morte di Giovanni Falcone era stata segnata da apparati dello Stato con un piano di neutralizzazione progressiva per impedirgli che scavasse ancora più in alto nella lotta contro la mafia. A trent’anni dall’orrenda strage del 23 maggio 1992 a Capaci ricordiamo le vittime con passerelle di politicanti di varie sponde, nessuna esente dalla responsabilità morale di decenni di misteri. Sui nomi delle vittime si esaltano traditori con sfilate vergognose, gentaglia in doppio petto che è stata come minimo reticente.
Poche le voci che si levano per chiedere luce su inquietanti misteri, giacché è impossibile che delinquenti sollevino coperchi sulle proprie malefatte; dei criminali, anzi, a volte si pentono, ma nessun uomo di apparato l’ha invece mai fatto.
Ancor più grave dell’omicidio di Giovanni Falcone sono state già prima l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e poi, dopo, quella di Paolo Borsellino, per la particolarità che i due delitti erano stati ampiamente annunciati, ma da Roma avevano lasciato che gli stragisti portassero a compimento i piani scellerati. Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino era il trio di uomini veri e corretti che avrebbero potuto salvare la Sicilia e l'Italia da una pandemica violenza.
Gli esiti giudiziari hanno ampiamente rivelato il coinvolgimento di uomini di governo, magistrati e funzionari di polizia, tutti rimasti però intoccabili o addirittura avanzati in carriera, offrendo all’opinione pubblica come capri espiatori un paio di poliziotti che avevano solo eseguito degli ordini per depistare. Sono questi ultimi, servitori in uniforme, che pagano; l’hanno fatto con la vita essendo ignari delle porcherie e degli intrecci assai più in alto: a trent’anni dalla strage di Capaci, onori a loro!